Francesco Cilea-Adriana Lecouvreur, RAI5, 10/03/2021 (Bologna, Teatro Comunale) di Daniele Nanni

RAI5 ha trasmesso mercoledì 10 marzo una bella Adriana Lecouvreur, spettacolo realizzato dal Teatro Comunale di Bologna come palliativo per una stagione (quella 2019-2020 ormai ampiamente conclusa) che ha visto tagliato l’80% degli spettacoli (con alcune chicche di cui si sente una mancanza lancinante) e una, quella 2020-2021, teoricamente già cominciata ma che, molto probabilmente, salterà del tutto! O tempora, o mores!!! Per scomodare ancora Cicerone, scrivo questa “De Consolatione” per cercare di riprendere le belle abitudini di un anno fa nella speranza che arrivino presto tempi migliori.

Intanto, Adriana… che dirne come opera? Su di lei se ne sentono di tutti i colori, da chi la ama profondamente a chi la denigra come la peggiore dei pataracchi operistici! In effetti si può dire che è la quintessenza dell’opera, nel bene e nel (relativo) male. Una trama da romanzone d’appendice condita da un libretto che non è certo un capolavoro, un atmosfera un po’ decadente già fin-de-siècle, tutti gli stereotipi possibili dell’opera lirica (compreso il modo davvero arzigogolato di far morire la protagonista), un tocco di “teatro-nel-teatro” che non guasta mai, specialmente in epoca pirandelliana, e, soprattutto, una diva che più diva non si può. Diva, oltre tutto, circondata dal classico armamentario dei cliché dell’opera lirica, dal tenore romantico e decisamente parecchio stupido, al bonario e paterno innamorato segreto che sacrifica tutto per l’amata, al mezzo-soprano iena che più cattiva non si può (forse solo la Zia Principessa di Suor Angelica è un personaggio più odioso della Principessa di Bouillon). In mezzo a tutto questo cosa scrive Cilea? Un’opera che, pur non essendo certo un capolavoro, personalmente trovo che si ascolti sempre molto volentieri, purché ben fatta e cantata. Certo, è una composizione un po’ raffazzonata: è più che altro una sequenza di bellissime melodie collegate in qualche modo tra loro (talvolta anche maluccio!), talvolta anche mal sviluppate e risolte e, soprattutto per quanto riguarda il “tema” della protagonista”, un po’ abusate. E il vero senso del teatro (qui Verdi certo non docet!) latita a dir poco! Ma sfido chiunque a non fremere durante alcuni momenti del canto dei protagonisti e a non commuoversi fino alle lacrime all’ascolto della melodia straziante dell’ultima scena. Certo, è un’opera che va presa per quel che è senza troppe pretese: in queste condizioni io la trovo sempre godibilissima.

C’erano le condizioni per goderne nello spettacolo del Teatro Comunale? Certamente sì! Intanto, quale scelta ha fatto il Comunale per la produzione? Non era una ripresa di uno spettacolo classico realizzato in palcoscenico; non era nemmeno un classico film d’opera. Era qualcosa di intermedio dove sono stati usati riprese e montaggio tipici del film ma il tutto girato sul palcoscenico e tra i palchi del Comunale. Devo dire che l’ho trovata una soluzione intrigante e interessante, con alcuni momenti particolarmente azzeccati tipo la sfida al buio tra Adriana e la Bouillon, in cui le due dive si fronteggiano sfiorandosi le mani tra un palco e l’altro, oppure (meglio ancora) tutta la scena finale in cui il tenore viene fatto cantare fuori scena e Adriana muore tra le braccia di Michonnet. Ma qui è soprattutto un fatto di scelte registiche…e quindi parliamo subito della regia.

Rosetta Cucchi ha, secondo me, fatto un lavoro eccellente. Devo dire che sono rimasto un po’ spiazzato quando, all’inizio del secondo atto, ho letto la scritta “18..” (non ricordo l’anno esatto, ma era sicuramente dopo la metà del secolo), ma tutto si è poi chiarito nel prosieguo, specialmente quando il terzo atto si è aperto all’inizio del ‘900 e il quarto nel 1968. La Cucchi ha quindi scelto di ambientare la vicenda in quattro epoche diverse: il primo atto nell’epoca “giusta” e gli altri dove ho già detto. Idea fantastica, che ha intanto alleggerito il drammone settecentesco con tutte le sue paccottiglie (presenti all’appello nel primo atto) ma, soprattutto, ha creato un percorso ideale di “divismo” al femminile che si rincorre lungo i secoli sempre con le stesse caratteristiche di fondo. La vera Adriana del ‘700 si trasforma così in, mettiamo, una Sarah Bernardt o un’Adelaide Ristori della seconda metà dell’ottocento, poi in una diva “belle époque” del cinema muto (o magari una Greta Garbo femme fatale del cinema anni ’20 e ’30), e infine in una Catherine Deneuve da film di Godard o Buñuel (ci sarebbe stata molto bene anche una Marilyn, ma la data indicata dalla Cucchi la pone fuori contesto). In questa bellissima idea di base, i protagonisti si muovono in maniera molto tradizionale e, potremmo dire, didascalica, senza particolari colpi di genio… fino al finale. L’ultima scena, sempre un po’ ridicola con quel Michonnet che rimane lì, coi suoi piccoli interventi, a fare da terzo incomodo nel duetto d’amore/morte tra Adriana e Maurizio, viene trasformata dalla Cucchi in un delirio in cui Adriana sente la voce di Maurizio fuori scena, nella realtà abbandonandosi sempre più tra le braccia di quel Michonnet che l’ha sempre amata e che ora ha il privilegio (se così si può dire) di accogliere il suo ultimo respiro per farla sua per sempre. Certo, per avere una scena ancora più perfetta si sarebbe dovuto modificare leggermente il libretto per togliere alcune incongruenze che cozzavano con l’idea generale della scena…ma che emozione!!! Quella bellissima melodia che accompagna il delirio di Adriana, accompagnata dalla visione di lei che si abbandona al “suo” Michonnet col sottofondo della voce “lontana” di Maurizio sono stati un pugno nello stomaco dal quale è stato difficile riaversi! Bellissimo davvero!

Si dice che Cilea avesse immaginato questa melodia eseguita a un tempo lentissimo (e si vagheggia di una vetusta registrazione con lo stesso Cilea al pianoforte in cui le cose stanno effettivamente così, ma non sono mai riuscito a sentirla) e, prima o poi, mi piacerebbe molto che qualcuno azzardasse qualcosa del genere. Non è stato il caso di Fisch, che opta per un tempo molto scorrevole, in linea peraltro con illustri colleghi. Parliamo quindi dell’esecuzione musicale. Intanto una nota importante: l’orchestra del Comunale è stata STUPENDA! Pur con un suono un po’ evanescente e “lontano”, dovuto probabilmente al fatto che suonava in una parte del teatro non pensata per questo scopo (la platea) e magari la ripresa del suono era perfettibile, mi è sembrato di riandare ai bei tempi di Mariotti, col quale l’orchestra aveva un affiatamento tale che le si poteva chiedere tutto, sia in termini di precisione che di bellezza del suono. Ecco, l’altra sera eravamo a quei livelli: a volte sembrava (e il Comunale non me ne voglia) di ascoltare un’orchestra molto più blasonata, tanta è stata la perfezione dell’insieme e lo splendore sonoro! Ma sappiamo bene che il Comunale ha una compagine che, se adeguatamente stimolata, sa rendere come e più di altre orchestre ben più rinomate! Fisch ha quindi avuto, intanto, questo enorme merito. Poi, ha diretto secondo me molto bene, con tempi giusti, ottima musicalità e senso teatrale, puntanto giustamente sui momenti di maggior presa emotiva ma senza sdilinquimenti. Un’ottima prestazione.

E veniamo ora ai protagonisti. Io non sono mai stato un grande estimatore di Kristine Opolais, soprattutto nel repertorio italiano. Certo, è bellissima, ha una presenza scenica magnifica ed è anche un’ottima attrice, ma la sua voce e il suo accento (musicale) non si sono mai adattati perfettamente all’opera italiana, pur con alcuni esempi notevoli (una bella Manon Lescaut con Kaufmann e Pappano). Pur con una tecnica ragguardevole, quello che le è sempre mancato è il legato perfetto, la rotondità di suono, lo squillo negli acuti, che sono conditio-sine-qua-non per affrontare certi ruoli. E purtroppo l’età sta affondando i denti in quel che già era periclitante. Pur poco più che quarantenne, la Opolais sta già perdendo quel poco smalto che aveva nella voce, che sta quindi imbruttendo sempre più. Ho trovato tutto il primo atto francamente imbarazzante per quel che riguarda il canto della protagonista. Nulla di orrendo, sia chiaro: non si sono sentite urla come quando voci “stanche” cercano di emettere acuti che non hanno più, ma non è stato certamente un bel cantare. Le cose sono poi andate meglio negli altri atti, quasi come se la voce si fosse scaldata (anche se, parlando di un film registrato e montato in tempi diversi la cosa ha poco senso: forse si tratta semplicemente di momenti di forma diversi). Considerando che ero molto prevenuto in partenza verso la Opolais, devo dire che, alla fine, ho trovato la sua prestazione abbastanza soddisfacente, soprattutto per quanto ha potuto sopperire alle pecche vocali con la presenza scenica sempre notevolissima. 

Presenza che non manca nemmeno alla sua antagonista, Veronica Simeoni / Principessa di Bouillon. La Simeoni è una delle realtà più ragguardevoli del teatro lirico contemporaneo ormai da diversi anni. Devo dire che anche la sua voce mi sembra inizi ad andare un po’ in sofferenza, forse per i tanti ruoli impegnativi già affrontati. Un ruolo come questo, poi, invita a ingrossare un po’ le gote e bisogna stare molto attenti a non esagerare, primo per non diventare ridicoli e, secondo, per aver riguardo per le proprie corde vocali (ricordo, a questo proposito, una Bouillon cantata recentemente al Met da Anita Rachvelishvili, che di voce e fiato ne ha tanti, ma che mi aspettavo espellesse da un momento all’altro una tonsilla per quanta foga e spinta dava alla voce: attenta, Anita!). Ad ogni modo, un’ottima interpretazione dal punto di vista musicale e una resa scenica magnifica del personaggio, con un canto sempre abbastanza sorvegliato e nessun eccesso da virago.

Ottima prova anche quella di Luciano Ganci / Maurizio di Sassonia. Ruolo ingratissimo! Uno dei classici ruoli in cui ci si chiede cosa mai abbiano fatto i tenori per meritarsi simili trattamenti da parte di un compositore (un po’ come i fantascientifici ruoli tenorili di Richard Strauss). Parte non lunghissima ma impervia, giocata tantissimo nella zona del passaggio di registro e con alcuni acuti che definire scomodi è un vero eufemismo. Ganci se l’è cavata egregiamente, cantando con bellissimo timbro, buona musicalità e ottima intonazione. Magari, si sentiva che in certi passaggi la voce era un po’ al limite e sarebbe servito un sostegno tecnico più saldo, ma cose del tutto trascurabili. La presenza scenica era certamente di intere spanne inferiore a quella delle sue due amanti, ma restiamo nell’ambito di una tolleranza più che accettabile.

Ho lasciato per ultimo Michonnet. In genere, questa è la figura debole dell’opera. Anche se ci sono delle frasi bellissime cantate da lui, di solito non si fa molto caso a questo personaggio, anzi… spesso, coi suoi lagnosi sospiri e la sua figura così dimessa, non si aspetta altro che si tolga dai piedi e lasci spazio ai suoi colleghi. Nulla di tutto questo, nello spettacolo del Comunale. Uno strepitoso (non posso usare altri termini) Nicola Alaimo, complice la regia della Cucchi, ha dato una nuova e inaspettata vita a Michonnet, cantando in una maniera così “empatica”, mi verrebbe da dire, così “autentica” da tirar fuori dalla musica di Cilea tutto un sottinteso di esistenza che Cilea stesso forse aveva in mente durante la stesura dell’opera, ma che certamente non bastano le note che ha scritto a rendere appieno. Si dice talvolta, in senso dispregiativo, che alcuni cantano “col cuore in mano”: ebbene, Alaimo ha cantato col cuore in mano, ma non nel senso di canto strappalacrime alla canzone napoletana (con tutto il rispetto per la medesima), ma di verità di ogni parola e ogni frase cantata, con una comunicativa che raramente ho avuto il privilegio di sentire. Anche per questo la scena finale, pur coi pochi interventi di Michonnet, è un capolavoro nel capolavoro di un artista sempre notevolissimo, ma qui da Oscar del canto lirico!

Una chiosa: con uno spettacolo come questo è ancora più bruciante dover fare a meno dei teatri, accidenti! Teniamo duro e prepariamoci alla rinascita: sarà bellissimo!

Daniele Nanni

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